Il presente è per il rinnovabile, ma il futuro rimane incerto

La Svizzera uscirà gradualmente dal nucleare entro il 2034 e fino ad allora investirà ancor più in una svolta fondamentale della politica energetica. Con questa decisione adottata due settimane fa dalle Camere federali si vuole fare un scelta a lungo termine ed irreversibile per un approvvigionamento energetico pulito, sostenibile ed anche sicuro. La via che ci porterà a questo traguardo è fatta d’ingenti investimenti nella ricerca tecnologica e nell’economia.

Tutto bene? Non proprio. Personalmente comprendo questa nuova tendenza, approvo la decisione delle nostre autorità politiche, ma avrei preferito tempistiche più flessibili e modalità più realistiche rispetto a quanto imposto.

Basti pensare che attualmente in Svizzera il 60% dell’energia elettrica utilizzata è di produzione idroelettrica, mentre il restante 40% deriva da centrali nucleari, prodotte dalle cinque funzionanti. Tre di queste verranno smantellate nel 2020. L’obiettivo della politica federale è di giungere entro il 2030 a produrre un 10% di energie elettrica grazie a nuove fonti rinnovabili. Per il resto dell’energia (ca. 30%) di cui avremo assolutamente bisogno per comprire il fabbisogno dei cittadini e delle nostre industrie non sappiamo ancora dove trovarlo, per non parlare di costi.

Anche gli antichi romani dicevano che l´uva arrivava da Cartagine. E noi da dove importeremo l’energia? La decisione non è di poco conto e pone quesiti complessi a sapere da chi dipenderemo e da quali fonti. Un’opzione ad esempio è quella di realizzare nuove centrali a gas, un’altra fonte poco rispettosa dell’ambiente. Oppure sfruttare il sole, una fonte inesauribile, creando grosse installazioni in Marocco, Libia e Tunisia. Ma per il momento lo sfruttamento di questa risorsa è molto limitato in Svizzera.

Il futuro del rinnovabile presuppone un’accelerazione della ricerca e dello sviluppo di alternative energetiche a lungo termine: l’energia solare, da biomassa, eolica e geotermica e nei metodi più avanzati per incrementare l’efficienza energetica. Ma anche con l’auspicato progresso tecnico, queste alternative diventeranno plausibli, nella migliore delle ipotesi, solo tra il 2035 e il 2050.

Dobbiamo essere realistici e pragmatici: anche nei prossimi anni, capacità nuove e all’avanguardia, una migliore gestione del sistema ed una maggiore efficienza energetica, sarà estremamente difficile compensare l’ammanco dovuto dalla chiusura delle centrali nucleari, tanto più che il consumo viene dato sempre in aumento (+ 2% in media all’anno per il Ticino dal 2000 ad oggi).

La Germania sta puntando sulle centrali a gas povere di biossido di carbonio che sostituiranno gradualmente la tecnologia nucleare. Ma quest’opzione dimostra in modo inequivocabile come le centrali fossili si rendono ancora necessarie quale tecnologia ponte per un periodo transitorio. E Fukushima insegna, i pericoli legati a centrali, che siano nucleari o a gas, non si fermano alle frontiere nazionali.

Il risparmio energetico come “fonte di energia” sarà dunque decisivo, ma anche questo non basterà a coprire il nostro fabbisogno.

La svolta energetica dovrebbe aprire la porta ad un’architettura energetica efficiente, sostenibile, economica e sicura. Per il momento siamo a livello di auspici e di buone intenzioni. Solo il futuro ci dirà se saremo in grado di vincere questa enorme sfida.

Chiusura del Gottardo: migliaia di posti di lavoro a rischio!

La chiusura del tunnel autostradale del San Gottardo avrà effetti devastanti per il Cantone Ticino e la sua economia mettendo a rischio migliaia di impieghi. Ora abbiamo anche i dati per ribadirlo forte e chiaro. Su questa minaccia mi sono peraltro già espresso a più riprese in occasione di alcuni dibattiti cui ho preso parte in vista delle prossime elezioni federali. Dagli stessi è emerso che sul fronte degli oppositori alla realizzazione del secondo tubo troviamo chi è consapevole che la chiusura prolungata provocherà dei disagi al Ticino e chi invece parla addirittura di opportunità per il nostro Cantone. I primi confidano che con l’apertura di Alptransit, abbinata alla realizzazione delle infrastrutture per i treni navetta (che dovrebbero sorgere a Biasca e Erstfeld) in un modo o nell’altro riusciremo ad ovviare ai problemi che ne deriveranno. Dai secondi aspettiamo ancora che spieghino ai ticinesi quali sarebbero queste opportunità di cui parlano, perché fino ad oggi nessuno (e probabilmente nemmeno loro) lo ha capito.
Il Comitato di sostegno a favore del completamento del Gottardo, di cui sono uno dei co-presidenti, da tempo si batte per lanciare un ampio dibattito sulla proposta di chiusura del tunnel per almeno 900 giorni prospettata dall’oramai famoso rapporto dell’USTRA presentato dal Consiglio federale lo scorso mese di dicembre. La nostra tesi è semplice: il Ticino non può rimanere isolato dal resto della Svizzera e dal nord Europa per quasi tre anni senza un collegamento stradale sicuro e affidabile. La soluzione che noi e il mondo economico ticinese prospettiamo è la costruzione di un secondo traforo prima di iniziare i lavori di risanamento di quello attuale, in modo che, una volta ultimati i lavori, alla fine avremo due canne con scorrimento unidirezionale del traffico, senza quindi aumento della capacità. Non si tratta dunque in nessun modo di accrescere la capacità del tunnel, nel rispetto di quanto prevede la Costituzione federale ma anche di tutti coloro che giustamente con un raddoppio delle corsie temerebbero un aumento del traffico parassitario di transito, poco interessante per il nostro Cantone.

 

Gli oppositori al raddoppio vogliono illuderci che la loro soluzione è rappresentata da Alptransit, un’infrastruttura ciclopica costata ben oltre 20 di miliardi di franchi. Purtroppo ad oggi i presupposti per il trasferimento del traffico pesante non sono minimamente dati: da un lato perché Alptransit si fermerà a Lugano e dall’altro perché l’Italia (e del resto nemmeno la Germania) prevedono di realizzare le indispensabili rampe di accesso per il trasbordo su rotaia dei camion. Per quanto riguarda invece il traffico indigeno dei mezzi pesanti, sarebbe una forzatura gravida di conseguenze costringere la aziende ticinesi, rispettivamente quelle a nord delle Alpi che operano con il nostro Cantone, a dover caricare i camion sui treni. Infatti i trasporti inferiori ai 400-500 chilometri – dunque proprio quelli relativi al traffico interno – non permettono per più motivi di essere trasferiti sulla rotaia, per non parlare della mancanza di flessibilità di questa modalità di trasporto, fattore estremamente importante per molte aziende.
Non prendiamo per il naso la popolazione ticinese lasciando intendere che possiamo tranquillamente chiudere l’asse stradale nord-sud per diversi anni senza che vi siano pesanti contraccolpi per la nostra economia. Lo abbiamo di recente dimostrato attraverso un sondaggio – presentato alla stampa – al quale hanno risposto ben 515 imprese interpellate in tutti i settori (edilizia, industria, commercio, trasporti, servizi e turismo), dal quale sono emerse indicazioni molto chiare. Il dato più eloquente e preoccupante, è che il 90% delle ditte ritengono che saranno toccate da questa chiusura e che per fronteggiare le ripercussioni ipotizzate (calo della cifra d’affari, aumento dei costi di fornitura, ecc.) esse prevedono un taglio degli impieghi mediamente del 20%, corrispondente a ca. 2’000 posti di lavoro.

 

Questo sondaggio non ha ovviamente la pretesa di essere scientifico, ma testimonia in modo inconfutabile le legittime preoccupazioni del mondo economico. Non scherziamo con il fuoco! Potrebbe essere molto pericoloso.

I rustici sono la nostra identità!

Della questione rustici si parla oramai da una trentina d’anni, durante i quali non si è voluto o saputo affrontarla con il dovuto pragmatismo, rimandando continuamente una problematica che presto o tardi era chiaro che ci avrebbe causato dei grossi problemi. Ancora ultimamente ha sollevato un accesso dibattito nella popolazione, in relazione all’ordine di demolizione di un fabbricato e soprattutto per l’opposizione sistematica della Confederazione alle domande di costruzione, che da troppo tempo penalizza il Ticino. Il danno è difficilmente calcolabile, ma certamente cospicuo, considerato che anche le imprese e gli artigiani delle zone periferiche vivono soprattutto grazie a questa importante fonte di reddito. Se questo assurdo tira e molla dovesse continuare, potremmo avere un grave problema economico e sociale, proprio nelle zone più in difficoltà e svantaggiate del Cantone dove molti posti di lavoro saranno a rischio.

Durante la trasmissione Falò delle scorse settimane sono emersi aspetti interessanti, che meritano senz’altro di essere tenuti in considerazione dalle autorità cantonali. Le nuove norme di attuazione, approvate nella primavera del 2010 dal Gran Consiglio, sono certamente abbastanza restrittive, ma hanno il pregio di perlomeno iniziare a fare un po’ di chiarezza in un contesto giuridico che, purtroppo, ha reso difficile una confronto costruttivo tra Cantone e Confederazione. Personalmente ritengo assolutamente inaccettabile il ricatto della Confederazione nei confronti dei ticinesi, che li obbliga ad attendere anni prima di vedersi (forse) approvata la licenza per la ristrutturazione del proprio rustico, anche quando rispetta pienamente i criteri di conservazione e di doveroso rispetto per quanto ci hanno lasciato i nostri avi. L’edificio rurale rappresenta per noi ticinesi non solo una possibilità per realizzare un rifugio in cui ritirarci a riposare o a passare momenti di tranquillità a contatto con la natura e con lo splendido territorio delle nostre valli. Il rustico è a tutti gli effetti l’essenza stessa della nostra identità che ci ricorda le fatiche e le sofferenze delle generazioni che ci hanno preceduto, che si sono guadagnate il pane sulle nostre aspre montagne. Relegare all’abbandono anche solo un fabbricato, perché non ritenuto degno di conservazione (sic!), è una pura assurdità oltre che un oltraggio alla storia e alle nostre tradizioni, che non possiamo accettare e neppure sopportare. Mi chiedo fino a che punto nell’Amministrazione federale vi sia la consapevolezza delle peculiarità della nostra realta, che non è paragonabile con quella, ad esempio, dell’altopiano: l’impressione è che non siamo stati in grado (o non abbiamo avuto la volontà) di spiegare agli uffici preposti e ai politici che se ne occupano, cosa rappresenta il rustico per noi. La questione è molto seria e va al più presto risolta, adottando i correttivi del caso. È quindi imperativo che la futura rappresentanza ticinese a Berna si impegni subito, con convinzione e determinazione e in collaborazione con il Governo, per risolvere in modo definitivo questa che per noi non è solo una questione di prassi giuridica, ma rappresenta, appunto, una parte fondamentale della nostra identità, della nostra cultura e della nostra storia.

Iniziativa 1:12 – inutile, costosa e controproducente!

Fra i temi in votazione il prossimo 24 novembre vi è anche l’iniziativa popolare lanciata dai giovani socialisti che chiede si sancire nella Costituzione federale un rapporto massimo di 1:12 fra il salario più basso e quello più altro all’interno di un’azienda. La proposta si iscrive in un disegno più ampio, di cui la sinistra cerca di farsi interprete, che vorrebbe abbattere, o per lo meno attenuare, le diseguaglianze sociali. Se l’obiettivo è sicuramente nobile, lo strumento scelto è non solo completamente sbagliato, ma addirittura controproducente per le stesse categorie che l’iniziativa vorrebbe difendere. Ma vediamo perché. La prima domanda che si potrebbe porre è a sapere se è giusto che la politica salariale delle aziende debba sottostare a delle regole imposte dallo Stato, la cui applicazione creerebbe oltretutto ulteriore inutile burocrazia. Personalmente continuo a credere che questo sia un tema che deve rimanere di competenza dei partner sociali, modello che fino ad oggi ha comunque dato dei buoni risultati, come lo dimostra il fatto che la Svizzera è uno dei Paesi con il maggior benessere e con una disoccupazione fra le più basse in Europa. La verità è che il tema delle remunerazioni salariali è troppo complesso per poter essere ingabbiato in regole schematiche e semplicistiche come quelle proposte. Ci sono in effetti aziende in cui questo rapporto è superato e i collaboratori con i salari più bassi sono soddisfatti, mentre altre che non sarebbero toccate dall’iniziativa dove invece vi sono delle situazioni deplorevoli, che non verrebbero comunque risolte. Ma il vero paradosso di questa iniziativa è che ad essere colpiti non saranno solo i dirigenti con salari elevati. Aggirare la normativa sarà relativamente semplice: le imprese potrebbero trasferire i dirigenti con i salari più elevati all’estero, rispettivamente delocalizzare i settori della produzione meno retribuiti, investire nell’automazione o ancora dare in outsourcing determinati servizi. Il risultato sarà in ogni caso la perdita di posti di lavoro. Ma ciò che è ancora più grave è che a pagarne le conseguenze sarà la stragrande maggioranza delle piccole e medie aziende ma soprattutto i dipendenti delle stesse. E’ noto a tutti che i salari più elevati contribuiscono in maniera decisiva a finanziare le assicurazioni sociali e le casse pubbliche a tutti i livelli istituzionali. Secondo uno studio dell’Università di San Gallo, in caso di accettazione dell’iniziativa ai fondi dell’AVS e dell’imposta federale diretta verrebbero a mancare ca. 500 milioni e rispettivametne 1,5 miliardi di franchi, con perdite ovviamente anche per Cantoni e Comuni (a livello federale il 10% dei contribuenti versa il 75% delle imposte!). Si può discutere all’infinito se questa stima è corretta. Rimane il fatto la limitazione degli alti salari comporterà inevitabilmente importanti minori entrate al fisco e alle assicurazioni sociali che dovranno essere colmate. Da chi? Ovviamente chiamando alla cassa le cittadine e i cittadini, ma anche le aziende, che si vedranno aumentare il carico fiscale e il prelievo degli oneri sociali sui salari. Un vero e proprio boomerang, con effetti potenzialmente devastanti per la nostra piazza economica. Nel contesto internazionale la Svizzera viene guardata con ammirazione e anche con malcelata invidia per le condizioni economiche e sociali che ha saputo creare. Se non vogliamo, in nome di una presunta giustizia retributiva, mettere a repentaglio questo modello di successo diciamo un chiaro NO all’iniziativa 1:12.