Soluzioni equilibrate sul salario minimo
La recente sentenza del Tribunale federale che ha autorizzato il Cantone di Neuchâtel a introdurre un salario minimo generale di 20 franchi l’ora, corrispondenti a 3’480 franchi mensili, ha spinto taluni a rivendicare l’adozione in Ticino di un salario minimo generalizzato di almeno 3’750 franchi mensili. Nessuno sembra tuttavia essersi posto una domanda fondamentale: cosa significherebbe l’adozione uniforme di un tale salario minimo per l’economia ticinese? Proverò pertanto a dare qualche risposta nell’ottica degli imprenditori, ovvero di chi crea e garantisce i posti di lavoro.
Ricordo anzitutto che dal 1 luglio 2018 saranno validi anche in Ticino i salari minimi obbligatori nell’ambito del contratto nazionale dell’industria metalmeccanica ed elettrica (Swissmem), il più grande contratto collettivo della Svizzera. Dopo lunghe trattative con i sindacati sono stati concordati salari minimi di 3’300 franchi mensili per il personale non qualificato e di 3’600 franchi mensili per quello qualificato. Questo contratto di lavoro prevede naturalmente diverse prestazioni extra salariali e vantaggi per il personale. Sono in effetti numerosi i contratti collettivi di lavoro firmati dalle parti sociali, dunque anche dai sindacati, che prevedono salari minimi compresi fra i 3’000 e i 3’300 franchi mensili, inferiori dunque al salario minimo generalizzato invocato da più parti. Se queste cifre sono abbastanza diffuse e condivise, significa che le parti sociali, che certamente meglio dello Stato e dei tribunali conoscono la situazione del mercato del lavoro e quella economica, li considerano una soluzione sostenibile e equilibrata che tiene conto dei diversi interessi in gioco. Non dimentichiamo che stiamo parlando di minimi salariali, e che la gran parte dei salari e delle prestazioni extra salariali pagate in Ticino sono ben superiori.
Come si vede già oggi nella realtà siamo discretamente lontani dai minimi salariali rivendicati dalla sinistra nostrana senza alcuna valutazione degli effetti economici e sociali della loro proposta. Per una regione di frontiera come il Ticino è fin troppo evidente che qualora il Consiglio di Stato e il Parlamento non adottassero salari minimi equilibrati la pressione dei lavoratori frontalieri a venire a lavorare in Ticino sarebbe ancora più grande, ottenendo quindi di fatto l’effetto contrario a quello auspicato.
Ho parlato volutamente di salari minimi al plurale in quanto molti (e in primis quelli che hanno lanciato e rispettivamente sostenuto l’iniziativa popolare) fingono di ignorare ciò che ha deciso il popolo ticinese due anni fa e che ora è iscritto nella Costituzione cantonale: non un salario minimo unico, bensì salari differenziati in base a una percentuale del salario mediano nazionale per mansione e settore economico interessati. Lo sappiamo bene che applicare salari minimi differenziati è più difficile, ma questa difficoltà deve essere addebitata prima di tutto al pressapochismo degli iniziativisti, i Verdi ticinesi, ma ciò non toglie al Governo e al Parlamento la loro responsabilità di dover applicare quanto è stato deciso dal popolo. Ci attendiamo pertanto soluzioni corrispondenti alla volontà popolare e soprattutto equilibrate, che sappiano ponderare bene i diversi elementi in gioco, compresi quelli di chi fa impresa che, spero, abbiamo almeno pari dignità rispetto alle rivendicazioni dei salariati e di chi li rappresenta.
Spiace invece constatare che oltre a comuni cittadini, deputati al Gran Consiglio, persone con cariche partitiche e persino parlamentari a Berna si lascino andare a critiche che denotano una scarsa se non nulla conoscenza dei meccanismi di funzionamento del mercato e soprattutto di un’azienda. Dal punto di vista economico il salario è prima di tutto uno dei costi importanti che un’azienda deve sostenere e non può essere considerato una variabile indipendente da tutto il resto, sulla quale si può intervenire a piacimento con decisioni politiche. Chiarito questo aspetto centrale, va anche ricordato che non spetta alle aziende risolvere attraverso i minimi salariali le fragilità sociali del nostro tempo.
Considerare gli imprenditori degli sfruttatori senza mai fare distinzioni, definire con il termine dispregiativo di “capannoni” gli stabilimenti industriali dove le lavoratrici e i lavoratori creano il valore aggiunto dell’azienda, rappresenta una deriva preoccupante per la nostra società. Un atteggiamento irresponsabile e irrispettoso nei confronti di quella parte importante di imprenditoria che ogni mese – non senza fatica – riesce a far quadrare i conti, colpevolmente alimentato da alcune forze politiche e sindacali più preoccupate del ritorno in termini di immagine che della ricerca di soluzioni praticabili nell’interesse comune.
Fabio Regazzi, presidente AITI
Pubblicato dal Corriere del Ticino, 01.09.2017
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