L’Europa si è autoproclamata laboratorio morale del pianeta, ma l’officina è altrove
Corriere del Ticino
C’è stato un tempo in cui l’Europa costruiva le cose. Automobili, turbine, treni, acciaio, trattori. Oggi costruisce regolamenti, mission statement e chilometriche linee guida sulla sostenibilità. Da tempo il nostro continente è passato dalle fabbriche ai forum, dal tornio ai PowerPoint, con la convinzione di promuovere progresso e «welfare».
Negli anni Novanta, il simbolo di questo benessere europeo era una casa di proprietà, un lavoro stabile e una Golf in garage. Oggi, il nuovo status symbol è riuscire a pagare l’affitto, un abbonamento a Netflix e qualche rata della bicicletta elettrica, comunque già sussidiata. La deindustrializzazione non è solo una statistica: è un cambio di mentalità.
Produciamo sempre meno, ma vogliamo sentirci sempre più «virtuosi». L’industria europea vale oggi meno del 13% del PIL dell’eurozona, inesorabilmente in calo da due decenni. In compenso, si è arricchito il lessico economico alimentato da uno stuolo di burocrati non del tutto disinteressati: «Resilienza», «sostenibilità», «transizione», «inclusione»…
Termini forbiti che però non generano un kilowatt e un solo bullone. Nel frattempo, gli Stati Uniti si reindustrializzano a grandi passi e la Cina, dopo aver acquistato mezzo continente, produce i pannelli fotovoltaici e le batterie «verdi» che noi ci limitiamo a installare. L’Europa si è autoproclamata laboratorio morale del pianeta, ma l’officina è altrove.
Anche la terra, che un tempo dava da vivere, è diventata un problema da gestire. Ogni anno chiudono migliaia di aziende agricole, soffocate da vincoli ambientali, regolamenti asfissianti e margini ormai ridotti all’osso. Così importiamo pomodori dal Marocco e mele dal Cile, in nome della «sostenibilità globale».