IlFederalista.ch
L’attualità ha riacceso i riflettori sul grande predatore, ma non sulle candide sue vittime. Qualche battuta (anche di spirito) sugli aspetti politici della diatriba, insieme al consigliere agli Stati Fabio Regazzi, ci introduce a un tentativo che abbiamo voluto scientificamente fondato di mettere a fuoco l’importanza, ecologica anzitutto ma anche economica, di un animale di allevamento prezioso quanto sottovalutato, la pecora. Tre studiosi ci guidano dentro l’affascinante ecosistema delle nostre valli alpine. Superando pregiudizi neo romantici e “cittadini” sulla Natura incontaminata e riscoprendo la genialità della colonizzazione umana delle Alpi.
Il lupo torna in scena, l’avrete letto in questi giorni, e sfonda le cronache nostrane per far capolino tra le news di rango internazionale. La Commissione UE fa sapere che a detta degli esperti, il soggetto di tante favole non è più una specie in via di estinzione: da un censimento risulta che nel continente ne trotterellano circa 20.000 (dati 2023), quando negli anni 70 se ne contavano poco più di 1500. E proprio al 1979 risale la fondazione della benemerita Convenzione di Berna che, sotto l’egida del Consiglio d’Europa, si eresse a protettrice “delle specie vegetali e animali selvatiche e dei loro habitat naturali”. Quanto al nostro Paese, se nel 2010 era censita una decina di lupi, nel 2024, quattordici anni dopo, se ne contano oltre 300.
Qualora poi si consideri, primo, che i membri di questa arzilla brigata di canidi elimina ogni anno mediamente tre capi di bestiame d’allevamento a testa (come si deduce dalle 65mila predazioni annuali stimate); e, secondo, che ai danni diretti provocati dalla bestia vanno aggiunti i milioni investiti negli anni per finanziare studi e ricerche ma soprattutto i costosi sistemi di protezione (ne sanno qualcosa anche i nostri alpigiani, alle prese con cani maremmani, sistemi di allarme e recinzioni chilometriche), si può intuire perché Bruxelles abbia fatto i suoi calcoli e abbia chiesto alla benemerita Convenzione di declassare infine il lupo da specie “strettamente protetta” a specie semplicemente “protetta”.
Frattanto però il Comitato della Convenzione di Berna –sempre in questi giorni- non si è peritato di tirare le orecchie alla Svizzera, colpevole di aver allentato la protezione del lupo consentendo limitate e mirate operazioni di abbattimento del super protetto predatore. Che dire?
“Io direi che i signori della Convenzione hanno perso un’ottima occasione per stare zitti”, irrompe il senatore ticinese Fabio Regazzi, presidente fino a maggio della Federazione Cacciatori ticinesi (2200 affiliati). “Tanto più che da oltre dieci anni si moltiplicano a Berna gli atti parlamentari che chiedono al Consiglio federale vuoi di uscire dalla Convenzione vuoi, per lo meno, di trattare con essa un allentamento dell’ormai anacronistica iper protezione di questo animale che mette a repentaglio la sopravvivenza della nostra agricoltura di montagna”.
Eppure –osserviamo- qualche passo in questa direzione è stato fatto, sia dal Governo federale che da alcuni Governi cantonali, Ticino compreso. Il consigliere agli Stati mette i puntini sulle “i”: “Infatti, Cantoni come Vallese e Grigioni si sono fatti largo con decisione attraverso questi varchi, consentendo abbattimenti abbastanza efficaci. Il Vallese aveva chiesto di eliminare quattro branchi e Berna aveva dapprima concesso l’abbattimento di due di essi; i vallesani hanno fatto pressione, a seguito delle continue predazioni, e in maggio Berna ha autorizzati tutti e quattro gli abbattimenti”. E in Ticino?
“L’impressione è che ci si nasconda un po’ dietro il rispetto delle leggi. Non che si debbano fare cose illegali, si tratterebbe solo di far sentire le proprie ragioni ai funzionari bernesi. Non si vuole eradicare la popolazione dei lupi ma solo limitarne la crescita esponenziale, in maniera mirata, per riportare la situazione sotto controllo, sebbene a mio parere sia troppo tardi. Sento di continuo nostri agricoltori affermare ‘quest’anno ho caricato ancora l’alpe ma l’anno prossimo non lo faccio più’. Ma sono loro, i contadini di montagna, che tengono vivo e curato il territorio, sono loro i veri garanti della biodiversità nel nostro territorio, fatto all’80% di valli di montagna”.
Per restare in Ticino, tuttavia, anche voi cacciatori siete stati coinvolti dal Consiglio di Stato nelle operazioni di abbattimento concesse dall’Ufficio federale dell’ambiente, riguardanti due esemplari del branco di Onsernone e due di quello di Val Colla. Fabio Regazzi: “Sì, è vero, e ho partecipato anch’io, insieme a un folto gruppo di cacciatori, a una serata organizzata a Giubiasco dall’Ufficio Caccia e Pesca, di notevole interesse dal punto di vista didattico. Per la parte operativa, invece, devo dire di essere rimasto un po’ deluso”.
Spiegandocene i motivi, Regazzi non trattiene un sorriso. “Sono stati messi così tanti paletti e vincoli che alla fine mi sono permesso una battuta, rivolgendomi ai cacciatori presenti: ‘Guardate –ho detto loro- che avete più chances di fare 6 al Lotto che di abbattere un lupo”.
A quali “paletti” si riferisce, senatore? “Mi limito a un paio di chicche, per farmi capire. Chi per esempio si trovasse in una zona senza copertura di telefonia cellulare –ci è stato precisato-, non potrà sparare. Ok, ma se poi, potendo sparare, si dovesse sbagliare, intercettando un capo che non sia precisamente quello indicato, si dovranno fare i conti con il procuratore pubblico. Chi mai nel dubbio se la sentirà di sbagliare, con il rischio di vedersi ritirare le patenti di caccia? Infatti non mi risulta che un cacciatore, qui da noi, diversamente che in altri Cantoni, abbia sparato a un lupo”.
Pecora, vittima prescelta, senza cui non possiamo stare
A non farsi cruccio sulle proprie vittime è invece il predatore. Perché tra uomo e lupo c’è di mezzo… la pecorella. Il problema principale in un ecosistema che preveda la coesistenza di uomo e lupo è rappresentato infatti dal numero di animali da allevamento predati ogni anno. Ce ne parla Armando Donati, presidente dell’ Associazione per la Protezione del Territorio dai Grandi Predatori. Sul tema, una vera e propria enciclopedia.
“Secondo i dati forniti dall’ufficio Caccia e Pesca”, ci spiega, “fino al 2021 i capi morti per predazione del lupo in Ticino erano dell’ordine di qualche decina all’anno. Ma nel 2022 c’è stato un cambiamento impressionante: 300 capi. In quell’anno l’aumento di branchi e lupi in circolazione in Ticino è stato rapidissimo, e gli allevatori non erano pronti”.
Se nel 2020 in Ticino viveva stabilmente una sola coppia di Lupi (maschio e femmina), oggi vi sono 5 branchi con cuccioli e 4 coppie fisse che verosimilmente avranno cuccioli l’anno prossimo. In tutto, oltre una trentina di esemplari.
Gli allevatori, negli ultimi due anni, si sono apparentemente fatti trovare meno impreparati, o semplicemente sono stati meno propensi a prendersi rischi e hanno portato meno animali al pascolo. Le predazioni hanno infatti subito un leggero calo: “Nel 2023 sono stati predati in Ticino 111 ovini (72%) e 41 caprini (26%), oltre ad altri animali come lama o vitelli (2%). Per ora, nel 2024 i capi morti sono 112”.
Un dato statistico che rimane costante di anno in anno è il seguente: “Il 75% delle prede sono ovini e il 25% sono caprini, sebbene il numero di capre e pecore presenti in Ticino sia simile: circa 7000 capre munte e 8000 pecore adulte”.
Armando Donati
Una preferenza, quella del lupo per la pecora, che non è certo dettata da gusti gastronomici. Com’è intuibile, “le pecore sono più attaccabili”, ci conferma Donati, “la capra è più lesta a scappare, è più agile e soprattutto sotto attacco il gregge si disperde, mentre le pecore reagiscono riunendosi, facilitando così ulteriori uccisioni”.
Agli animali predati andrebbero aggiunti quelli dispersi: “A fine agosto, il numero di capi dispersi a seguito di un attacco del lupo era di circa un centinaio. Scappando dal lupo finiscono in pietraie, burroni, o si incagliano in rododendri e non si trovano più”.
Capi, questi, che non vengono risarciti: per ottenere un risarcimento occorre infatti presentare la carcassa. Una situazione che crea sconforto tra gli allevatori.
Le conseguenze
L’elevato numero di predazioni comporta anche importanti conseguenze secondarie. Le conosce e le studia Vittoria Riboni, ingegnere, ricercatrice presso il polo regionale comasco del Politecnico di Milano e presidente dell’Ente di gestione aree protette dell’Ossola. “Il capo predato è solo la punta dell’iceberg”, ci ricorda subito (ne avevamo già parlato con lei qui). “Oltre ai capi dispersi, c’è il fatto che i piccoli allevatori sono spinti a smettere la loro attività e vendere gli animali. Muore qualche capo ma sparisce un intero gregge”.
Le greggi sono tuttavia fondamentali, spiega Riboni, per il mantenimento degli ‘spazi aperti’, le parti di montagna non ricoperte di boschi: “Ce ne dimentichiamo, ma gli spazi aperti, sono quelli di cui l’uomo usufruisce. È lo spazio vivibile e godibile per chi ci vive, ma anche per i turisti. Se le Alpi fossero una barriera impenetrabile di bosco, nessuno ci andrebbe”. Togliere gli allevatori di montagna, Riboni ne è certa, per la montagna sarebbe una rovina: “È la pastorizia, quella più primordiale, a reggere ancora la socio-economia delle Alpi”.
Ma non è solo una questione socioeconomica. “Il mantenimento degli spazi aperti”, continua Riboni, “è un valore per la biodiversità: permette la vita di diversi fiori, alcuni molto importanti per le api, e di alcuni volatili, come ad esempio il gallo forcello che ha bisogno di vivere vicino agli spazi aperti. L’animale alpestre è dunque alla base di una intera catena alimentare specifica”.
Vittoria Riboni
Lo riconosce anche Silvia Gandolla, biologa faunista per WWF e Pro Natura: “Ci sono alcuni alpeggi in cui regna una biodiversità ricchissima. Luoghi dove crescono orchidee rarissime, connesse a quello sfruttamento del suolo estensivo (il pascolo)”. Un altro elemento: “Il cambiamento climatico sta alzando il livello delle foreste, mette in pericolo anche animali non strettamente dipendenti dalla gestione degli alpeggi. Però gli alpeggi aiutano a tenere basse le foreste”
L’abbandono degli alpeggi si velocizza, come ci dice Donati: “Dal 2011 al 2023 in Ticino sono stati abbandonati il 37% degli alpi caricati a ovini”. Ai pascoli abbandonati vanno sommati quelli scaricati in anticipo: un problema anche economico. “In passato da metà settembre fino a quasi dicembre, nel periodo in cui non danno latte, le capre stavano al pascolo da sole, a basse altitudini. Un periodo, dunque, in cui la capra è sempre costata pochissimo all’allevatore e in cui l’alpigiano poteva dedicarsi ad altri lavori”.
“L’arrivo del lupo”, in sintesi, “comporta molto lavoro supplementare non retribuito”. Negli animali tenuti ora in recinzioni, “qualsiasi malattia infettiva si propaga più rapidamente”. Ma a preoccupare è anche un altro fatto: “Potrebbe sparire anche il formaggio, tipico di Maggia e Verzasca, misto capra-mucca, frutto di una tradizione secolare”.
Silvia Gandolla
Pecora tanto predata, a che servi?
Rilanciamo con una provocazione: ma se il 75% dei capi predati sono pecore, la soluzione non sarebbe smettere di allevarle? In fondo, delle pecore ticinesi non si sfrutta la lana, non si produce quasi latte, poco formaggio; nel migliore dei casi qualcuno di noi ha mangiato agnello a Pasqua. Perché dunque ne alleviamo 8000? I più maliziosi ipotizzano che alcuni alpigiani tengano le pecore solamente per percepire non meglio definiti “sussidi” dallo Stato.
“Io non ritengo che la pecora sia un animale inutile”, ribatte Gandolla del WWF, “perché non è un valore solo se la mangiamo o ci facciamo i pullover. La biodiversità da lei protetta non è una finzione: se noi smettiamo di gestire un equilibrio secolare perderemmo decine di specie”. “E comunque”, continua, “l’entrata dovuta ai pagamenti diretti fa davvero la differenza tra l’arrivare alla fine del mese o non arrivarci, specialmente per i contadini di montagna nelle valli isolate”.
Una presenza importante quella di questi allevatori: “È pur sempre gente che tiene vivi, lavorandovi, luoghi periferici; e non va dimenticato che l’alpeggio fornisce fieno ricco e prezioso anche agli allevamenti del fondo valle”.
“L’importanza della pecora come animale da carne non va sottovalutata”, ci ammonisce invece Donati. “È vero, le 8000 pecore adulte che abbiamo non si mangiano, ma ogni anno producono agnellini, che raggiunti i 40 kg vengono venduti nei grandi supermercati di tutto il Paese”.
“I pagamenti diretti”, aggiunge, “sono inoltre indispensabili. Di fatto si tratta di retribuzioni che lo Stato versa ai contadini per il lavoro che fanno soprattutto di gestione del territorio”. Altrimenti andrebbero pagati prezzi corretti per i prodotti: “Quando io ero un ragazzo (anni 50 e 60) mio padre aveva mucche e vendeva il latte ai privati in paese a 50 centesimi il litro. E viveva di quello, in inverno, primavera e autunno. Oggi si vende a 60 centesimi al litro. Il prezzo è ancora lo stesso!”
D’altro canto, per l’ingegnere Riboni, “pensare che senza pecore ci sarebbero meno predazioni è assurdo. Il lupo è un cacciatore utilitarista, attacca le pecore per comodità. Qualora ci fossero solo capre prederebbe quelle”.
Inoltre, ogni specie allevata rappresenta un valore aggiunto: “La vacca è l’animale più pregiato e selettivo, mangia le erbe migliori. La pecora mangia le erbe meno pregiate, è utile per rimettere in sesto i pascoli abbandonati, prepara il terreno alla vacca. La capra è più propensa a mangiare foglie, germogli, in zone anche impervie, contiene l’avanzamento del bosco”.
“La pecora”, sintetizza, “offre un servizio alla società. In foto potete vedere le mie: pochi animali per tenere il bosco lontano da un ciglio stradale pericoloso. Dove non è stato fatto questo loro lavoro in maniera continuativa, costante, è cresciuto il bosco, come si vede alla fine del prato”.
Ma dunque convivere o non convivere col lupo?
“Quello che penso sempre è che le decisioni sulla regolazione dovrebbero essere prese da biologi”, ci dice Gandolla, “senza politica e senza troppo estremismo ‘protezionista’. I biologi studiano le dinamiche delle popolazioni, sono i primi a dire che è giusto intervenire quando un animale è problematico”.
Gandolla crede in un certo livello di convivenza: “Per il WWF, i lupi potrebbero anche venire utili, in un momento in cui le foreste soffrono per i troppi ungulati. Ma occorre lavorare tutti insieme a un modo che sia praticabile e accettabile da tutti”.
Per Vittoria Riboni, invece, l’unica convivenza possibile è quella a zonizzazione. “Si devono individuare a livello di Unione Europea delle zone disabitate o scarsamente abitate, dove si potrà mantenere delle popolazioni di lupo sane, controllate, studiate. Nessuno vuole l’estinzione del lupo”.
Lasciamo a lei le ultime riflessioni: “Si guarda al ritorno del lupo come a una venuta miracolosa; il guaritore degli squilibri causati dall’uomo. È una visione romantica che però è stata alimentata a lungo. Una visione del rapporto uomo-natura di una certa parte del mondo ambientalista, che vede l’uomo solo come elemento di distruzione e mai come motore di salvaguardia. Una diversità di visione che corrisponde pressoché alla grande spaccatura che c’è tra il mondo urbano e il mondo rurale”.
Forse, ragiona l’ingegner Vittoria Riboni, per la rottura del cordone ombelicale tra il mondo rurale e il mondo urbano sempre più avanzata nell’evo industrializzato. “Quando in realtà è nei centri abitati ad alta densità che l’uomo si comporta un po’ come una specie invasiva, dove tutto è asfaltato e i fiumi sono stati imprigionati. È anche un po’ un modo per pulirsi la coscienza: parliamo di cambiamenti climatici, poi tutti al 15 di ottobre vogliamo accendere il riscaldamento quando potremmo rinunciarvi ancora per una quindicina di giorni. Ma il pastore in montagna, lui sì, deve convivere felicemente con il lupo, perché questo salva l’ambiente e la nostra coscienza è tranquilla”.